Nei vent'anni fino alla morte, il D. lavorò incessantemente per il
cinema, per lo più in questo tipo di film e in ruoli assai simili. Vi
furono tuttavia alcune eccezioni. Se Totò cerca casa trasformava in farsa uno spunto tipico del cinema neorealista, e se in Yvonne la Nuit (1949, di Giuseppe Amato) il suo personaggio si era già fatto più patetico che comico, in Napoli milionaria
(1950) egli fu al fianco di Eduardo De Filippo nell'adattamento
cinematografico che questi diresse della sua celebre commedia sugli
effetti della guerra a Napoli; in Guardie e ladri (1951, di
Steno e Monicelli), fu un eccellente "ladro" contrapposto alla "guardia"
Fabrizi in una commedia dolce-amara di impronta nettamente neorealista;
in Totò e Carolina (1953, degli stessi registi, su soggetto di
Ennio Flaiano) un umanissimo carabiniere incaricato di riportare al
paese una giovane prostituta, e in Dov'è la libertà? (1952, di
Roberto Rossellini) un carcerato che, liberato, scopriva l'orrore della
vita quotidiana nella Roma postbellica e tornava in carcere con una
evasione alla rovescia. Il suo film di maggiore successo fu però, in
quegli anni, Totò a colori (1952, di Steno), primo film italiano girato a colori, che altro non era che un'antologia di suoi famosi sketches teatrali. In 47 morto che parla (1950, di Bragaglia), si era cimentato con Petrolini e Molière (L'avaro); in Totò e i re di Roma (1952, di Steno e Monicelli), con due racconti di Cechov; in L'uomo, la bestia e la virtù (1953, di Steno) e nell'episodio La patente del film Questa è la vita (1954, di Luigi Zampa), con Pirandello; in Sette ore di guai (1951, di Metz e Marchesi) e nei tre film di Mattoli Un turco napoletano, Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi
(1953-54), con il già frequentato Scarpetta. Ma anche questi soggetti
erano piegati alle necessità della sua maschera, e ne derivavano a volte
alcune inedite stridenze.
L'interpretazione più lodata del periodo resta, assieme a quella in Guardie e ladri, quella del "pazzariello" in L'oro di Napoli
(1954) di Vittorio De Sica, su soggetto di Giuseppe Marotta adattato da
Zavattini. La critica, che disprezzò in genere il Totò maschera
"volgare" più amato dal pubblico, lo apprezzò invece quando fu più
"personaggio" e più "umano". La sua "filosofia" il D. la espresse
peraltro in Siamo uomini o caporali? (1955, di Camillo
Mastrocinque), che firmò come autore del soggetto. In questo
"chapliniano" resoconto delle disgrazie di un italiano prima durante e
dopo la guerra, le realtà umane si essenzializzano nella
contrapposizione tra "uomini" e "caporali", tra vittime e prepotenti, i
quali ultimi (incarnati tutti da Paolo Stoppa), si presentavano volta a
volta nelle vesti di un milite fascista, il direttore di un Lager, un
ufficiale americano, un direttore di giornale, un industriale. Che
questa primaria distinzione e "filosofia" fosse per il D. radicato
convincimento lo dimostra la sua presenza al fondo di sue espressioni
meno legate al mestiere d'attore, come in alcune poesie dialettali ('A livella), o in alcune canzoni - qui, soprattutto in rapporto alle donne (Malafemmina) - o nel volume autobiografico Siamo uomini o caporali? (Roma 1952, scritto in collaborazione con A. Ferraù ed E. Passarelli), che precedette l'omonimo film.
http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-de-curtis_%28Dizionario-Biografico%29/